Al Teatro ARCOBALENO in Roma va in scena MOSTELLARIA di Plauto

Dal 28 dicembre 2019 al 19 gennaio 2020, al Teatro ARCOBALENO (Centro Stabile del Classico), la Compagnia CASTALIA va in scena con MOSTELLARIA (La commedia del fantasma) di Tito Maccio Plauto (in latino: Titus Maccius Plautus o Titus Maccus Plautus, nato a Sarsina, oggi in provincia di Forlì-Cesena, tra il 255 e il 250 a.C. e morto nel 184 a.C.) con l’adattamento e la regia di Vincenzo Zingaro.
E’ sicuramente una delle commedie più divertenti ed interessanti del commediografo latino, in cui è possibile riscontrare tutti gli elementi che hanno determinato la sua fortuna nei secoli. In essa si ritrova la forza dirompente dei personaggi plautini, popolari, colorati, fortemente caratterizzati. Si tratta di maschere che travalicano i secoli, fra cui spicca il servus callidus, il servo astuto, inventore di mille trovate esilaranti. Un tipico esempio di “rovesciamento sociale”, che sta alla base del teatro plautino: giovani e servi, rispettivamente sottomessi alla potestà dei padri e dei padroni nella vita, sulla scena prendono il sopravvento, ribaltando ruoli e rompendo schemi.
Vincenzo Zingaro ha scritto con acume nelle note di regia:” Come nel Carnevale (prima nei Saturnali e ancor prima in Grecia nei riti dionisiaci) i codici comportamentali vengono scardinati, per un bisogno collettivo di ritornare al Caos primigenio, dove gli istinti la fanno da padrone (non a caso la “MOSTELLARIA” si apre proprio con i postumi di un lussurioso banchetto). In realtà, si tratta di un rovesciamento momentaneo, destinato, al termine della rappresentazione teatrale, a lasciare il posto all’ordine socialmente stabilito. Il palcoscenico diventa così una “zona franca”, dove tutto si rimescola, per ritrovare alla fine un “rinnovato” ordine. Così, nel finale della “MOSTELLARIA”, la formula del perdono ristabilisce i precedenti equilibri, assicurando il lieto fine. Anche se questa può sembrare apparentemente una formula banale, in realtà, essa risponde a un bisogno altrettanto profondo dell’uomo di dominare le forze scatenanti del Caos. In questo modo, la commedia plautina gioca su un duplice binario, mostrando tutta l’ambiguità dell’esistenza (il suo “diritto” e il suo “rovescio”, senza che l’uno possa prescindere dall’altro) e dimostrando di poterne ridere, ci offre uno strumento di lettura della vita capace di regalarci una inaspettata nota di serenità, quasi un senso di libertà. Ripartire dal “basso” (il basso ventre, i bassi istinti, la parte bassa della comunità, ecc.), esaltare la corporeità attraverso il gusto dell’iperbole e del grottesco, a livello sia fisico che verbale, significa riappropriarsi di una dimensione culturalmente esiliata, non per una vena di gratuita volgarità, ma per recuperare un “rovescio” di cui il “diritto” ha bisogno, per un’esigenza di aristofanesca riconciliazione (la commedia di Aristofane si fondò proprio sulla capacità di disporre in un’armonica composizione gli elementi contrastanti più disparati). Ecco il perché della metateatralità plautina, del cercare continuamente un contatto diretto con il pubblico: quasi a voler ribadire che non c’è niente di serio in quello che sta vedendo, ovvero, che quello che sta vedendo è talmente assurdo da essere paradossalmente più autentico del reale, perché risponde unicamente alle leggi di un gioco condiviso da attori e spettatori, in cui tutto è possibile, in cui ognuno ha la possibilità di dialogare con i propri fantasmi, di trovare un accordo fra il proprio ”diritto” e il proprio “rovescio” e arrivare magari alla fine della rappresentazione con la sensazione di poterli scacciare quei fantasmi, o meglio, con la consapevolezza che quei fantasmi non sono che la proiezione delle nostre paure”.

Carlo Marino
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