Strindberg alla Garbatella. Roma

Il Pellicano di August Strindberg nella traduzione di Franco Perrelli è stato messo in scena al Teatro Palladium di Roma da Walter Pagliaro con una splendida Micaela Esdra nella parte della madre. E’ la famiglia al centro del dramma. Una tematica che interesserà sempre l’autore svedese. A partire dalla descrizione della propria famiglia nel libro autobiografico: “ll Figlio della serva”. In quel caso, però, fu solo una “libera interpretazione”, perché la sua era una famiglia stabile e borghese, con una madre religiosa ed umile e un padre autoritario e patriarcale, con interessi da esteta per musica, abbigliamento, giardinaggio. Johan August Strindberg nacque nel 1849 e la situazione sociale ed economica delle donne in quel periodo stava trovando un svolta importante nella societá svedese. Le donne andavano conquistando sempre maggiori diritti connessi anche ad una maggiore apertura verso le carriere istituzionali, le libere professioni e l’istruzione fino ad allora inibite dalle leggi dello stato. Va sottolineato che quando cambia il ruolo della donna le società intere cambiano e tra il 1850 e il 1860 la Svezia visse anni di vero e proprio fermento. Dal 1875 in poi Strindberg cominciò a pubblicare articoli e a lavorare presso la Biblioteca Nazionale di Svezia come supplente, studiò il cinese con l’aspirazione di diventare sinologo e stabilì contatti in Francia.

“Il Pellicano” (in svedese: Pelikanen) appartiene ai cosiddetti drammi da camera del drammaturgo di Stoccolma e questo animale dà il titolo al dramma perché una antica leggenda voleva che, piegando il becco verso il petto per cibare i piccoli con i pesci trasportati nella sacca, se lo squarciasse per dare loro nutrimento anche col proprio sangue, il sangue del proprio cuore. Quando nel dramma, composto nel giugno del 1907, arriva il momento dello smascheramento si metterà l’accento sul fatto che “il Pellicano non ha mai donato il sangue del proprio cuore”. L’ allestimento scenico è nel freddo salotto di una casa lussuosa e narra la tragedia di una famiglia alla deriva. Interessante nella messa in scena di Luigi Perego l’aver creato sul fondale una sorta di mattatoio per simboleggiare l’atrocità degli psicodrammi che si svolgono tra gli attori. Protagonista della pièce è la madre che regge le sorti della casa fingendo di non vedere il male che la accerchia, come se fosse solo tutto un sogno. I suoi figli appaiono entrambi mal nutriti e mal sviluppati, quasi degli “zombie”, in tutto dipendenti da lei. Gerda, sterile (sulla scena si muove anche su una sedia a rotelle) è sposata con l’amante della sua stessa madre. E’ lei che tenta in ogni modo di far funzionare il meccanismo rotto dell’amore, di emulare la madre. Anche Gerda sembra camminare nel sonno e non voler essere ridestata perché non riuscirebbe a vivere. Fredrick, il fratello, invece è un ubriacone disincantato, l’unico che riuscirà, però, a trovare una soluzione per far cessare finalmente il girone dell’abitudine. “La miseria della vita non ha fine e i figli non sono riconoscenti verso i genitori per natura”. “Dopo tutto quello che ho visto non mi sposerò mai”: il matrimonio viene visto da Strindberg come “una vita da cani”. Tutto il dramma comunque ruota attorno alla figura materna “contro la propria madre si è indifesi”! Le menzogne hanno fatto da manto alla relazione familiare creando il disprezzo per la vita, per l’umanità, per la società , un disprezzo così sconfinato da togliere ogni anelito vitale. Fredrik non ha il coraggio di tornare sobrio. Anche lui non ha la forza di vedere e vorrebbe una pozione che possa spegnere il ricordo senza soffocare la vita. Nel dramma si stente viva la tradizione dei grandi drammaturghi della Grecia classica e degli scrittori russi, francesi e tedeschi. Non mancano neppure le grandi intuizioni psicanalitiche freudiane e le posizioni di Nietzsche.

Carlo Marino

 

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